CAPITOLO 14

 

Mentre Grossi affrontava il traffico della tangenziale, il commissario pensava, perso nel suo mondo. Palumbo e Martella, che avevano cominciato a conoscere i modi di fare del loro capo, non si meravigliarono più di tanto: Boschi stava elaborando le informazioni ricevute dal pachistano e lo faceva con la rapidità di un computer. Trascorse poco meno di un'ora, durante la quale l'auto aveva varcato l'ingresso dell'autostrada e procedeva spedita in direzione del ritorno.
Ad un tratto il commissario alzò gli occhi e disse a Grossi:
“Usciamo a questo casello, ho visto un'insegna. Magari siamo fortunati.”
Si trovavano in prossimità della città di Avezzano, a circa cento chilometri dal commissariato. Si intravedeva in lontananza un'insegna, Grossi la seguì e notò che il commissario non si sbagliava. In pochi minuti giunsero nel parcheggio di un grande ristorante a ridosso di una statale; la presenza di numerose auto e diversi Tir rassicurò Boschi, il posto non avrebbe tradito le attese.
Il ristorante si chiamava “La Tana di Garibaldi” e prometteva invidiabili menu a base di pasta fatta a mano e carni alla brace tipiche del luogo. Per Boschi, amante dei piatti di mare, si presentava come un'altra novità da provare, così come gli era accaduto il giorno prima, quando si era trovato a pranzo con Tiziana alla “Dama del Fino”.
Presero posto ad un tavolo in una delle grandi sale, a quell'ora già occupata da molte persone. Era un ambiente piacevole ed accogliente, sicuro preludio ad un ottimo seguito. Presero un primo piatto a base di tagliatelle al guanciale ed un arrosto misto con patate al forno (“le coltiviamo qui, sono il prodotto tipico della nostra zona”, aveva detto loro il proprietario), quindi si concessero un buon caffè.
Il pranzo si consumò in breve tempo. Pagarono il conto (“un ottimo prezzo unito alla qualità ed alla cortesia”, disse Palumbo che aveva voluto pagare per tutti), quindi si rimisero in auto ed alle quattro giunsero in commissariato.
Appena messo piede in ufficio, Carelli chiamò il commissario. Sembrava piuttosto allarmato, quasi ansioso di comunicare la notizia al suo superiore.
“Commissario, poco fa ha chiamato un certo Colasanti, lasciando un messaggio per lei. Io ho anche provato a telefonarle, ma purtroppo il cellulare risultava irraggiungibile.”
“Forse eravamo nella galleria della superstrada. Non preoccuparti, leggerò il messaggio in ufficio.”
Si diresse nella sua stanza, si mise alla scrivania e lesse la comunicazione del capo dei vigili del fuoco.

“Stamattina, mentre erano in corso le ultime operazioni di ripristino e livellamento sull'ex colle di Santa Marta, abbiamo rinvenuto dei resti umani. Si tratta di un braccio ed una parte di addome, in condizioni che non sto qui a descrivere. Abbiamo raccolto il tutto, depositandolo in una cella frigo presso il nostro Comando. La prego di contattarmi appena Le sarà possibile. Saluti.”

Ripiegò il foglio e lo mise in un cassetto della scrivania, quindi chiamò Carelli:
“Per cortesia, cercami subito Colasanti, il caposquadra dei vigili del fuoco. Chiama il Comando, se necessario chiamalo al cellulare, al satellitare, sulla Luna, dovunque sia. Io non ci sono per nessuno, nemmeno per il Papa.”
Aveva la voce leggermente allarmata ed affannata. Se le cose andavano come stava pensando, non c'era che un'ipotesi che rispondeva a verità. Ed era terribile.
“Buon pomeriggio commissario, sono Colasanti. Come avrà letto nel mio messaggio, la mattinata ci ha riservato una scoperta che non pensavamo di fare.”
“Colasanti, avete fatto benissimo. Ora chiamo la Scientifica ed il medico legale, faremo il possibile per identificare quei resti. Avete trovato altro?”
“Per il momento no, commissario. Stiamo rastrellando le zone qui intorno alla ricerca del resto del corpo, ma non credo che sarà facile.”
“Grazie, continuate se lo ritenete opportuno. E mi tenga informato, mi chiami a qualsiasi ora.”
Concluse la telefonata e gli balenò un pensiero: doveva fare una chiamata, ma senza passare per il centralino. E soprattutto senza avvisare il questore, perlomeno non il questore Mazzotta.
Chissà, forse Mazzotta lo avrebbe anche assecondato, ma non ne era sicuro al cento per cento.
Se avesse seguito la procedura ufficiale, sarebbe stato necessario troppo tempo. Che lui non aveva.
Sapeva a chi si sarebbe potuto rivolgere. Fece una chiamata a Torino, poi si dispose ad aspettare.
Sapeva che l'attesa sarebbe stata breve.
Di lì a poco gli giunse una chiamata sul cellulare. Il numero era stato nascosto, ma il commissario era più che sicuro che si trattasse di un funzionario dell'Interpol.
“Commissario Boschi?”
“Sì, sono io.”
“Mi ascolti attentamente. Partiamo dal presupposto che lei ed io non ci siamo mai parlati. Ho avuto un cordiale colloquio con il questore Achille Magnani, un mio vecchio amico. Quel che chiede non è certo illegale, ma è fuori dalle regole per la tempistica e le modalità della richiesta. Come lei ben sa, dovrebbe inoltrare una domanda formale, sottoscritta dal suo questore e dal Prefetto, in quanto si tratta di una questione di rilevanza internazionale. Tuttavia, ripeto, data la natura del caso ho già ottenuto quanto le occorre. Le giungerà una mail in codice, avrà la password sul cellulare. Le ripeto, lei ed io non ci siamo mai parlati. Chiaro?”
Boschi rispose:
“Chiarissimo. Non ci siamo mai parlati.”
Richiuse il cellulare, i successivi minuti sembravano non trascorrere mai. Spostava lo sguardo ora sul computer, ora sul display del telefonino, in attesa della risposta. Dopo circa venti minuti, la mail tanto attesa giunse. Quasi in contemporanea, il cellulare emise un breve trillo: le informazioni erano arrivate.

“I dati in allegato riportano il DNA del detenuto Kahlgibran Fahrid, attualmente ristretto nella casa circondariale Regina Coeli di Roma, in regime di semilibertà. L'utilizzo di tali dati è consentito ai soli fini dell'indagine inerente il detenuto in questione ed i personaggi ad esso strettamente collegati. I suddetti dati devono essere visionati e manipolati esclusivamente da personale autorizzato.”

Chiuse il computer, prese il telefono sulla scrivania e formò un numero.
“Caro commissario, come stai?”
“Bene, signor questore. Ogni tanto fa piacere risentirsi, quando si lavora così distanti non ci si vede più tanto spesso.”
Il questore ridacchiava.
“Già, già. Bisognerebbe mandarsi una cartolina, ogni tanto. Ma ormai siamo nell'era di Internet e si vive solo a base di e-mail. Un giorno o l'altro te ne manderemo una, magari con tutti i nostri dati. In questo modo potrai sempre ricordarti di noi.”
Boschi sorrise: Magnani gli stava chiedendo se l'operazione era andata a buon fine.
“Ha ragione, signor questore. Ormai, se vogliamo essere sicuri dell'arrivo delle informazioni che trasmettiamo, una e-mail è la cosa migliore.”
“Ne sono convinto. Ora devo salutarti, il lavoro mi chiama. Vieni a trovarci, sai che qui sei sempre a casa tua.”
“Grazie signor questore, non mancherò.”
E così Boschi aveva rassicurato il suo vecchio superiore e maestro: tutto era andato per il meglio.
Chiamò Martella:
“Prendi con te Grossi, recatevi al Comando dei Vigili del Fuoco. Vi verrà consegnato un contenitore termico con dei reperti, che dovrete portare prima alla Scientifica e poi al medico legale. Intanto io avviso il dottor Sartorelli.”
Si fece passare da Carelli l'istituto di medicina legale. Il dottore rispose al primo squillo, come al solito cortese e disponibile.
“Certo commissario, esaminerò i reperti appena li avrò qui.”
“Grazie. Mi dica, ha qualche dato in merito al DNA del probabile assassino del filippino?”
“Commissario, per quanto ne so io si tratta di una persona non presente negli elenchi della questura. Ma non so dirle altro.”
“Bene, appena ha delle risposte sui reperti mi faccia sapere, se possibile. Anche in via informale, poi leggerò il suo rapporto con calma.”
Passò le due ore successive a firmare moduli e questionari per la Prefettura (“indagini statistiche”, gli era stato detto), ma prima chiamò Tiziana.
“Amore, tutto bene? Siete tornati da Roma?”
“Sì, è tutto a posto.”
“Stasera a che ora finisci? Ceniamo insieme? Vorrei preparare qualcosa qui, che ne dici se vieni per le otto e mezza?”
“Va bene, alle otto e mezza sarò là.”
“Grazie amore. Ti amo tanto.”
“Anch'io. A dopo.”
Alle sette e mezza rientrarono Grossi e Martella.
“Commissario, il medico legale dice che entro domani sera le farà avere i risultati.”
“Ma domani è sabato!”
“E' vero, ma dice che lo fa per lei. La stima molto, dice che dovrebbero esserci più persone così.”
Il commissario fu colto da un moto di silenziosa gratitudine. Quel ragazzo, così dedito al lavoro, si era messo totalmente a sua disposizione, forse per cercare di capire a sua volta i perchè di quella assurda tragedia.

La mattina dopo, fresco e riposato, si alzò alla solita ora. Non sarebbe andato in ufficio, perciò ne approfittò per uscire sul terrazzo a respirare la piacevole aria che veniva dal mare. Sarebbe stata una giornata calda, ormai l'estate si faceva sentire. Sotto la macchia colorata di ombrelloni si vedeva già qualche bagnante, che come lui amava godersi l'aria del primo mattino.
Quel quadro, quell'immagine di riposo e tranquillità, forse anche di allegria, stonava con quanto il commissario avrebbe vissuto di lì a poche ore. Scelse un vestito elegante, avrebbe messo la giacca a dispetto della temperatura calda. L'occasione, ma soprattutto il rispetto per le persone lo richiedeva.
Arrivò in anticipo a destinazione e fu fortunato, trovando qualche parcheggio ancora libero. I vigili urbani stavano dirigendo il traffico, era stata montata una deviazione di percorso dalla statale verso le strade interne, necessaria per l'evento di quella mattina. Il commissario lasciò l'auto, attraversò l'aiuola che circondava l'area di parcheggio e si recò ad un bar pasticceria dall'altra parte della strada. Lo aveva visto il giorno del suo arrivo, uscendo dal casello dell'autostrada, affollato di persone allegre e scherzose, intente a consumare caffè o stuzzicanti aperitivi. Ora regnava un'aria greve e silenziosa, interrotta solo dai commenti sul fatto del giorno. Lungo la strada, sulle bacheche infisse sui marciapiedi, manifesti e mazzi di fiori rendevano omaggio alla sfortunata famiglia dei Di Silvestro.
Boschi andò alla cassa, ordinò un caffè ed un croissant. Consegnò lo scontrino al barista, questi lo guardò per qualche istante e gli disse:
“Io la conosco. Lei è il commissario che è passato tante volte qui davanti, il giorno dell'esplosione ed anche dopo.”
Boschi non pensava certo di essere riconosciuto, da sempre rifuggiva la ribalta. Si limitò a dire al barista:
“Sì, sono io. Mi sono trovato a passare per normali esigenze di servizio.”
Il barista, avuta conferma delle sue osservazioni, disse ancora a Boschi:
“Commissario, lei pensa che la tragedia del colle di Santa Marta possa essere stata provocata da qualcuno? Voglio dire, non è stata una fatalità?”
Boschi gli rispose semplicemente:
“E' quello che sto cercando di capire. E non è facile, mi creda.”
Il barista, il viso triste e spento, concluse il dialogo:
“La prego commissario, faccia giustizia. Fabio era un mio amico e la sua famiglia era meritevole di affetto e stima.”
Boschi salutò il ragazzo ed uscì dal bar. Mancava un'ora e mezza alla celebrazione delle esequie, la chiesa di Sant'Agostino cominciava a riempirsi. Il commissario prese posto nel banco riservato, di lì a poco lo raggiunsero Palumbo, Vicari e Martella. Grossi stava cercando parcheggio, impresa non facile a quell'ora.
Alle undici meno un quarto giunse Monsignor Giulio Sormani, vescovo della diocesi di Pescara, che avrebbe presieduto la celebrazione. La chiesa non era sufficiente a contenere tutti i partecipanti, molte persone erano ammassate fuori, si vedevano i furgoni e le antenne delle troupes televisive delle principali reti nazionali. Il traffico sulla statale era completamente bloccato, l'affollamento nella chiesa ed immediatamente fuori era stimato in circa quattromila persone.
Accanto a Boschi presero posto il questore ed il Prefetto, sull'altro lato della chiesa erano presenti numerose personalità politiche locali e nazionali.
Dopo pochi istanti il coro polifonico salutò l'ingresso delle quattro bare in legno chiaro, disposte ordinatamente ai piedi dell'altare maggiore, in un tripudio di corone. Mazzi di fiori bianchi erano posti ai piedi dei feretri dei ragazzi. Le due vedove, l'anziana madre dei fratelli Di Silvestro e la badante erano in prima fila, chiuse nel loro dolore composto. Poco più in là, gruppi di ragazzi e ragazze piangevano sommessamente, le foto dei loro amici scomparsi strette tra le mani. Boschi vide anche gli operai e gli impiegati della ditta, tra i quali riconobbe Giacomo Cirilli.
Ne mancava solo uno.
Appena il vescovo mise piede sull'altare, nella chiesa si fece un improvviso silenzio, interrotto qua e là dai singhiozzi sommessi degli amici dei ragazzi morti. La celebrazione ebbe inizio, tutti erano intenti a seguirla con attenzione. L'agente Martella, accanto al vicecommissario, non riusciva a stare fermo. Girava gli occhi qua e là, continuamente. Palumbo se ne accorse.
“Si può sapere che hai?”
“Non so, dottore. C'è qualcosa che non mi convince.”
“Non hai motivo di allarmarti. Ci sono i colleghi della questura, ci sono i carabinieri. Tranquillo.”
“Non mi riferivo a quello. Posso allontanarmi un attimo? Faccio il giro della chiesa e del piazzale e ritorno.”
“D'accordo, porta con te Grossi. Ma sbrigati e soprattutto cerca di non dare troppo nell'occhio.”
L'agente sfilò rapidamente dal proprio posto. Vide il collega a metà della navata, bastò un cenno d'intesa per capirsi. Completarono il giro in pochi minuti, Martella tornò al suo posto. Aveva visto quel che c'era da vedere. Si rivolse a Palumbo.
“Dottore, tenga d'occhio il commissario durante la celebrazione e soprattutto dopo.”
“Martella, devo preoccuparmi?”
“Non ne sono certo. Spero di sbagliarmi.”
L'agente, anche se il posto non lo permetteva, aveva con sé la pistola d'ordinanza. La mise a portata di mano, ben nascosta dalla giacca.
La celebrazione delle esequie della sfortunata famiglia durò più di due ore. Il vescovo fece una lunga omelia, nel corso della quale vennero ricordate le virtù della famiglia Di Silvestro, l'onestà e la bontà d'animo, da tutti riconosciute in tanti anni di onesto lavoro, che era stato interrotto in modo così tragico. Al termine parlarono il sindaco, il presidente della Provincia di Pescara, il presidente della Regione, un deputato ed un senatore venuti apposta da Roma. Tanti ricordi, tante esortazioni a svolgere onestamente il proprio lavoro, come i Di Silvestro avevano sempre dimostrato. Le vedove dei due fratelli ringraziarono tutti per l'intensa e commossa partecipazione, in particolare le autorità che erano intervenute. Infine la carrellata di commosse testimonianze ebbe termine, il vescovo si mosse dall'altare e tutti si prepararono ad uscire dalla chiesa. Al mesto viaggio verso il cimitero avrebbero partecipato soltanto i familiari e gli amici più stretti.
Il commissario si avviò verso la sua auto. Avrebbe chiamato Tiziana per pranzare insieme, magari la ragazza era troppo presa dal lavoro ed allora si sarebbero fermati alla pensione.
Stava per aprire la portiera dell'auto, quando sentì sulla nuca la pressione della canna di una pistola.
“Mani sulla testa e voltati lentamente.”
Il commissariò ubbidì, non avrebbe potuto fare altro. Sulle prime aveva pensato ad uno scherzo, ma il tono calmo e freddo delle parole non lasciava spazio a dubbi. Lentamente si girò e vide un volto dai chiari tratti asiatici, che lo fissava con un sogghigno.
“Sbirro, non devi mai mettere il naso in quel che non ti riguarda. Ma sarà l'ultima cosa che farai.”
Tirò il grilletto dell'arma e mirò al petto di Boschi, ma non riuscì a fare altro. Sentì la mano destra chiusa come in una morsa, il braccio compiere una torsione innaturale, un forte colpo alla base della schiena. La pistola cadde, in un istante l'uomo si ritrovò ginocchioni ed una voce urlò:
“Faccia a terra!”
Con il viso contro l'asfalto, l'uomo sentì l'altro braccio tirato sulla schiena, lo scatto inconfondibile delle manette. Infine fu aiutato a rialzarsi.
L'agente Martella, scattando con la rapidità di un cobra, aveva disarmato ed immobilizzato l'uomo. Vide Boschi che, appoggiato all'auto, osservava la scena. L'asiatico guardava verso terra.
“Tutto bene, commissario?”
“Tutto bene, non preoccuparti. Ma chi è costui?”
Nel frattempo li raggiunsero Vicari e Palumbo. Grossi sapeva che Martella avrebbe seguito passo dopo passo il commissario, così fece da guida ai suoi superiori per raggiungere il luogo del tentato agguato. Martella spiegò:
“Commissario, fin dal nostro ingresso in chiesa mi sono accorto che qualcosa non quadrava. Questa è una zona popolata da cinesi onesti e lavoratori, ma su quattromila persone presenti alla cerimonia non ne ho trovato uno. D'altronde loro hanno la cultura del lavoro, oggi è sabato, è difficile trovarli nel corso di un evento del genere, consideri anche che professano un'altra religione, tranne rari casi. Costui è la sola persona che ho notato, aveva lo sguardo di chi cerca qualcuno e sembrava piuttosto interessato alle prime file, nelle quali noi avevamo preso posto. Non la volevo disturbare, così ho comunicato la cosa al dottor Palumbo, chiedendogli di poter fare un giro di perlustrazione dentro alla chiesa ma anche sul piazzale. Ho chiamato con me Grossi, appena ci siamo mossi costui si è dileguato. Sono tornato al mio posto, da quel momento mi sono messo a seguirla discretamente. A quanto pare ho avuto ragione, per fortuna sono intervenuto in tempo.”
Lo disse con sincerità, non per autocelebrarsi ma per aver salvato la vita al suo capo. Boschi capì il tono sincero dell'agente, così gli disse:
“Grazie. Ti devo la vita.”
Martella rispose semplicemente:
“Dovere, commissario.”
Mentre l'asiatico veniva affidato a Vicari per essere portato in camera di sicurezza, Boschi disse a Palumbo:
“Chiama il giudice Berardi e mettilo al corrente della cosa, deve firmarci un mandato di arresto. Se l'asiatico non ha esitato a tentare di uccidermi in una piazza così affollata vuol dire che l'indagine lo ha punto sul vivo. Lui o i suoi capi hanno interesse ad eliminare me e non solo. Dovremo farci raccontare parecchie cose.”
Palumbo chiamò il giudice, che assicurò la sua presenza entro mezz'ora. Poi disse al commissario:
“Mario, vai a riposarti un paio d'ore. Oppure prendi la tua ragazza e portala a pranzo, qui pensiamo a tutto noi. Quando rientri interrogheremo l'asiatico.”
“D'accordo, a dopo.”
Palumbo e Vicari portarono via l'arrestato, Grossi andò a prendere l'auto. Martella non si decideva a lasciare il commissario. Boschi lo rassicurò:
“Stai tranquillo, non ce ne sono altri. Altrimenti sarebbero intervenuti quando tu mi hai difeso.”
Ma l'agente insistette:
“Mi perdoni commissario, non mi fido. Mi dia il permesso di tornare con lei sulla sua auto. Poi mi lascia vicino alla pensione ed io torno in ufficio a piedi.”
Boschi non se la sentì di replicare. Doveva molto a quel ragazzo.
“D'accordo, faremo come vuoi tu. Andiamo a prenderci un caffè, adesso ci serve. Non credi?”
Martella annuì. Mentre si avviavano verso il bar, il commissario trasalì: il questore ed il Prefetto si stavano dirigendo verso di lui. Fu Mazzotta a parlare.
“Commissario, come procede l'indagine?”
Boschi avrebbe volentieri evitato l'incontro, ma semplicemente perchè non aveva alcuna voglia di parlare. Tuttavia l'ultimo episodio, il tentativo di aggressione che aveva subìto, era stata la conferma ai suoi sospetti. Così disse al questore ed al Prefetto:
“Signor questore, signor Prefetto, vi posso comunicare, naturalmente in via ufficiosa, che entro una settimana l'indagine potrà considerarsi chiusa.”
Mazzotta sgranò gli occhi:
“Boschi, ne è sicuro? In questo caso lei deve avere importanti novità! Non crede che sia mio diritto conoscerle?”
“Certo, signor questore. Ma al momento sono solo ipotesi, nate da un disegno ben preciso. Se gli ultimi sospetti che ho in mente troveranno conferma, allora ci vedremo presto.”
Salutò entrambi e raggiunse il bar. Il caffè risultò essere ancor più buono di quello del mattino, forse perchè lo stava bevendo con il suo salvatore.

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